Il calendario romano

Le prime notizie di ciò che diverrà il calendario ufficiale dei nostri tempi risalgono all’VIII secolo a.C. e provano una sostanziale arretratezza nel computo del tempo. I progressi – tuttavia – saranno rapidi, e troveranno la loro ragione nella efficienza della macchina amministrativa di una potenza politica che si avviava a diventare egemone. I successivi miglioramenti, via via aggiunti senza modificare l’impianto originario e tuttora riconoscibili in alcune incongruenze (nella nomenclatura dei mesi e nella loro lunghezza ad esempio), trovarono il loro assetto definitivo nel calendario di Giulio Cesare (calendario giuliano) oramai al passo con le più avanzate conoscenze della astronomia del tempo.

Entrato in vigore nel 46 a.C., il calendario giuliano segnerà un solo tempo per tutto l’impero fino alla sua decadenza e poi accompagnerà l’occidente nel medio evo e nella rinascenza fino all’anno 1582 d.C. quando la riforma di Gregorio XIII perfezionerà il solo meccanismo di compensazione del giorno bisestile lasciando immutato ogni altro dettaglio.

Forte della razionale pragmaticità dell’antico calendario giuliano, il calendario gregoriano conquistò subito i paesi di tradizione cattolica, poi anche quelli luterani, calvinisti e infine anglicani che lo diffusero nel loro vasto impero coloniale. Tra fine ‘800 e inizio ‘900 venne adottato da giappone, egitto, cina, turchia e unione sovietica. Il successivo sviluppo di una economia globale ed oggi, attraverso la rete informatica, di relazioni sociali su scala planetaria, hanno abbattuto le ultime resistenze facendo dell’antico calendario romano di Giulio Cesare il calendario del nostro tempo.

Analogamente al calendario babilonese, il giorno iniziava con il sorgere del sole e si concludeva all’alba successiva. Il mese, invece, già alla fondazione di Roma (753 a.C.) aveva perso ogni relazione con i movimenti della luna e si trovava in una relazione assai incerta con l’anno. Data la sua relazione con il ciclo delle stagioni l’anno costituiva il ciclo più importante e possiamo supporre fosse traguardato in modo approssimato con il tramonto e la levata eliaca di certe costellazioni di riferimento senza però alcuna possibilità di confronto con le raffinate tecniche impiegate dagli astronomi egiziani e babilonesi.

Due tardi grammatici romani – Censorino (200- 250 d.C. circa) e Macrobio (385-430 d.C.) – riferiscono che Romolo, fondando lo stato romano, istituì un nuovo calendario probabilmente sulla base di un più antico calendario etrusco.

L’anno veniva ripartito in un due parti: un ‘inverno’ non organizzato di oltre 60 giorni ed un lungo periodo calendarizzato di 304 giorni. Tale consuetudine, già documentata dagli etruschi, si ritiene risalga alle antiche ‘settimane’ italiche di 8 giorni che i romani chiamavano nundinae (infatti in 304 giorni entrano esattamente 38 ‘settimane’ di 8 giorni), divise in 7 giorni di lavoro nei campi ed 1 giorno dedicato alle celebrazioni religiose ed al mercato (dies nundinarum).

Il calendario di 304 giorni era poi suddiviso in dieci mesi di lunghezza fissa formati da 30 giorni (cavi menses) o da 31 giorni (pleni menses) secondo il seguente schema: Marzo (31g), Aprile (30g), Maggio (31g), Giugno (30g), Quintilio (31g), Sestilio (30g), Settembre (30g), Ottobre (31g), Novembre (30g), Dicembre (30g).

Pragmatica, la nomenclatura dei mesi fa per lo più riferimento alla posizione nella serie decimale con alcune eccezioni la cui etimologia ha però qualche incertezza: Marzo dal latino Mars (Marte); Aprile forse dal greco aphros (spuma, un riferimento a Venere, nata dalla spuma marina, portatrice della fecondità della nuova stagione); Maggio dal latino maiores (anziani), giugno dal latino iuniores (giovani).

Sembra che già Numa Pompilio – secondo re di Roma dal 715 al 673 a.C. – assorbì la gran parte dell’inverno introducendo due nuovi mesi brevi di 51 giorni complessivi prima di Marzo: Gennaio dal latino mensis ianuarius (mese di Giano) e Febbraio dal latino mensis februarius (mese della purificazione). Secondo Censorino e Macrobio, in seguito si tolse un giorno ad ognuno dei sei mesi di 30 giorni che i romani ritenevano sfortunati allungando a 6+51=57 giorni i due nuovi mesi brevi di Gennaio e Febbraio. Si giungeva così al seguente calendario di 355 giorni suddivisi in 12 mesi: Gennaio (29g), Febbraio (28g), Marzo (31g), Aprile (29g), Maggio (31g), Giugno (29g), Quintilio (31g), Sestilio (29g), Settembre (29g), Ottobre (31g), Novembre (29g), Dicembre (29g).

Il calendario di 355 giorni lasciava dunque un residuo d’anno non calendarizzato di oltre 10 giorni ai quali veniva applicata una articolata procedura che aveva lo scopo di mantenere il corretto allineamento con le stagioni. Tale procedura – già documentata in età regia prima del 400 a.C. – ricalca esattamente il modello del mese intercalare del calendario babilonese.

Dato che il calendario prevedeva 355 giorni mentre il ciclo delle stagioni – sbagliando – era valutato in 366 giorni e ¼ si calcolava un resto non calendarizzato di 366,25-355=11,25 giorni per anno ovvero 11.25×4=45 giorni ogni 4 anni. Questi 45 giorni venivano allora suddivisi in due mesi brevi di 22 e 23 giorni che andavano ad allungare il calendario del secondo e quarto anno della serie che così prendeva la seguente forma alternante 355g, 377g (355+22), 355g, 378g (355+23). Non è finita. Il mese breve veniva di regola inserito tra febbraio e marzo e quando vi era l’inserimento il mese di febbraio diminuiva da 28 a 23 giorni prestando i 5 giorni al mese breve che così aumentava a 22+5=27 giorni (secondo anno della serie) oppure a 23+5=28 giorni (quarto anno della serie).

La estrema complessità di questo calendario trovava la sua controparte in una articolata terminologia ancora impressa nella nostra lingua. Il sostantivo calende (calendae) si riferisce al primo giorno del mese (es: calendae Martiae era il primo giorno di marzo mentre le tristes calendae erano in generale tutti i primi giorni del mese in cui maturavano gli interessi da pagare ai debitori); il sostantivo idi (idus) si riferisce invece al 13-esimo giorno nel caso dei mesi cavi (così Idibus Februariis si riferisce al 13 Febbraio) o al 15-esimo giorno nel caso dei mesi pieni; il sostantivo nona (nonae) si riferisce al nono giorno antecedente le idi e dunque al quinto giorno dei mesi cavi ed al settimo dei mesi pieni (si noti che i romani sottraevano includendo il giorno di partenza).

A Roma il controllo del calendario era demandato al Collegio dei Pontefici, un organo di istituzione regia che sopravvisse in età repubblicana con funzioni sia in ambito religioso che giurisprudenziale. Pare che non sempre il calendario fosse al centro delle loro attenzioni dato che Cesare (Pontefice Massimo dal 63 a.C. al 44 a.C.) nel 47 a.C. lamentava un ritardo tra calendario e stagioni di circa 90 giorni che lo indusse a chiamare a Roma Sosigene, un noto astronomo alessandrino del tempo.

Il nuovo calendario romano, detto giuliano, fu promulgato l’anno seguente e prevedeva una prima misura che, eccezionalmente, allungava il 46 a.C. a 355+90=445 giorni (i 90 giorni furono distribuiti nel solito mese aggiuntivo di 23 giorni tra febbraio e marzo ed in ulteriori due mesi di 67 giorni complessivi tra novembre e dicembre) in modo da riallineare il calendario con le stagioni (Macrobio, auspicando che quello potesse essere l’ultimo anno del lungo periodo di cattiva gestione del calendario, chiamò il 46 a.C. annus confusionis ultimus).

Una seconda misura prescriveva l’estensione del calendario da 355 a 365 giorni e la distribuzione dei 10 giorni aggiuntivi nei mesi cavi di 29 giorni lasciando immutato il mese di Febbraio a 28 giorni. Si pervenne così all’attuale calendario di 365 giorni divisi in 12 mesi: Gennaio (31g), Febbraio (28g), Marzo (31g), Aprile (30g), Maggio (31g), Giugno (30g), Quintilio (31g), Sestilio (31g), Settembre (30g), Ottobre (31g), Novembre (30g), Dicembre (31g).

Il calendario di 365 giorni avvicinava al massimo grado possibile la durata dell’anno che Sosigene fissò in 365 giorni e ¼ ben più corretto dei 366 giorni ¼ assunti a Roma fino ad allora. In questo modo il ritardo del calendario rispetto al ciclo stagionale ammontava ad un solo giorno ogni 4 anni che veniva aggiunto ripetendo un giorno del mese di febbraio. La scelta cadde sul 24 Febbraio, il giorno dei Terminalia, una antica festa del periodo regio che celebrava lo Jupiter Terminalis, la divinità protettrice dei confini di Roma. Si ripeteva così il sesto giorno antecedente le calende di Marzo ovvero l’ante diem bis sextum Kalendas Martias poi contratto in bissextem (raddoppio del sesto giorno) da cui il giorno bisestile della nostra lingua, oggi aggiunto in coda ai 28 giorni di Febbraio.

Nel 44 a.C., a conclusione del proprio mandato di Pontefice Massimo, Giulio Cesare impresse il proprio nome nel calendario romano riformato rinominando il settimo mese – il mensis quintilis – in mensis Iulius, l’attuale mese di Luglio.

Dopo la promulgazione, il nuovo calendario giuliano fu affidato alle cure dei successivi collegi dei pontefici che non brillarono in rigore aggiungendo qualche volta il giorno bisestile dopo soli 3 anni e non ogni 4 come prescritto da Sosigene. Durante il principato di Augusto il tema del calendario attrasse nuovamente l’attenzione pubblica tanto che un poeta alla moda come Ovidio se ne occupò nell’opera i Fasti, lasciata poi incompiuta a seguito dell’esilio impostogli dallo stesso imperatore. Da necessaria premessa di una efficiente amministrazione, il calendario divenne nuovamente strumento di propaganda politica così Augusto – come Cesare – avviò un attento riesame della situazione. Nell’anno 10 a.C. fece posizionare in Campo Marzio un monumentale obelisco di 30 metri proveniente dalla città di Eliopoli (Egitto) che andava a costituire lo gnomone di una enorme meridiana. Le linee meridiane a terra erano realizzate in bronzo fissato sulle lastre di travertino che ricoprivano la vastissima platea della piazza di oltre 180 metri di diametro. La realizzazione delle linee e l’orientazione dell’obelisco furono eseguite con particolare cura dal matematico Facondio Novo. Questa immensa meridiana, che avrebbe dovuto dimostrare l’esattezza del calendario giuliano, rese invece manifesta la trascuratezza dei collegi dei pontefici che ne avevano curato l’applicazione, facendo emergere un disallineamento tra calendario e stagioni di ben tre giorni. Augusto vi pose rimedio allungando l’anno 8 d.C. di tre giorni e a conclusione del riesame impresse il proprio nome nel calendario romano riformato rinominando l’ottavo mese – il mensis sextilis – in mensis Augustus, l’attuale mese di Agosto.

Veniva così riavviato il corso millenario del calendario giuliano che sarà sottoposto ad un nuovo riesame nel 1582 da Papa Gregorio XIII. Si accertò allora che l’equinozio di primavera cadeva l’11 Marzo e non il 21 Marzo, segno evidente che l’aggiunta di un giorno ogni 4 anni rendeva la durata media del calendario un po’ più lunga dell’anno solare. Si intervenne allora lasciando cadere un giorno bisestile ogni 100 anni con una eccezione ogni 400 anni, una misura che dovrebbe assicurare l’allineamento del calendario con le stagioni al meglio di un giorno ogni 3323 anni. Al netto di questa modifica il vecchio calendario giuliano coincideva puntualmente con il nuovo calendario gregoriano che nei secoli a seguire si diffonderà gradualmente in tutti i paesi della terra realizzando quella idea di eternità e universalità che nei momenti più alti hanno profondamente ispirato le istituzioni romane.